Gigi D'Alessio
Rentrèe discografica in grande stile per Gigi D'Alessio che ha dato da poco alle stampe il suo ultimo lavoro, "Uno come te" che ha visto la partecipazione, tra gli altri,di gente come Tullio De Piscopo, Vinnie Colaiuta, Michael Thompson e Pino Palladino.
Quattordici i brani presenti, tutti come di consueto molto melodici e facilmente memorizzabili, ma realizzati con gran cura dei particolari ed arrangiati col solito buon gusto da Adriano Pennino.
Il nuovo album di Gigi D’Alessio, appena uscito e già “adottato” da centinaia di emittenti radiofoniche nazionali e locali.
La parola all’autore, innanzitutto…
– “È un disco in cui credo molto. È molto pensato. Pensato soprattutto nei ritocchi, nei dettagli, non tanto nella composizione, le melodie sono venute giù spontaneamente, senza ripensamenti, in un clima completamente rilassato. Un disco che è cresciuto giorno per giorno in questo ultimo anno e mezzo… è la prima volta in dieci anni che mi concedo un tempo così lungo tra un album e l’altro. Ho avuto il tempo per valutare tante piccole cose che tutte insieme poi hanno assunto un'importanza enorme. Gli altri album erano tutti ravvicinati, realizzati a volte in periodi brevissimi: il record ce l’ha “Portami con te”: 10 canzoni scritte e registrate in 45 giorni, roba da non dormire la notte per l’angoscia. Questa volta sono stato praticamente nove mesi chiuso in casa: dal pianoforte andavo nel mio piccolo studio per appuntare una melodia, poi tornavo al piano per finirla… la mattina, tra un caffè e l’altro, mi mettevo a buttare giù qualche idea di testo con Vincenzo (D’Agostino, ndr)… e così via, sempre concentrato ma soprattutto sereno. Ho avuto anche un budget più sostanzioso, e questo mi ha dato l’opportunità di chiamare musicisti importanti, internazionali. Da Pino Palladino (attualmente con gli Who, ndr) a Vinnie Colaiuta, a Michael Thompson. Non è solo una questione di abilità, di capacità tecnica… da questi grandi nomi ti aspetti soprattutto delle idee, il fatto di non dover spiegare niente: tu dai un input e quell’input ti ritorna, non solo interpretato, capito come desideravi, ma pieno di alternative tutte valide. Come ad esempio per Michael Thompson: su una canzone ha suonato 40 tracce di chitarra: io e Adriano (Pennino, suoi gli arrangiamenti, ndr) non sapevamo quale scegliere, c’era davvero l’imbarazzo della scelta”.
Qual è il tuo stato d’animo adesso che l’album è pronto a muovere i suoi primi passi?
– “Di totale serenità. Mi sento felice come un bambino. Sai quella sensazione di quando a scuola pensavi ad un bel giocattolo che ti aspettava a casa, oppure quando hai comprato un’automobile nuova, e conti i giorni che mancano alla consegna? Esattamente quella sensazione. Sono già contento sapendo di avere una bella cosa in mano. Mi entusiasmo da solo al pensiero di averlo fatto. Io questo album lo definisco un guardaroba per tutte le occasioni. C’è il vestito per tutti i giorni, c’è lo smoking, ci sono i jeans…”
– Immagino che i jeans siano “Miele”, il primo singolo, l’apripista come si dice…
– “Esatto. È una di quelle canzoni che hanno il compito di dare ritmo al disco. La mia tendenza sarebbe quella di fare un disco solo di brani melodici, lenti, ma mi rendo conto anche che lo “spettacolo” vuole le sue regole… la scaletta deve essere bilanciata, come fosse un concerto, ed ogni volta che pubblico un disco mi viene spontaneo pensarlo subito in una dimensione live”.
– Sei giustamente entusiasta delle nuove canzoni di “Uno come te”. In questo momento sono i tuoi figli prediletti. E tutte le altre? Sei uno che guarda solo avanti?
– “No, assolutamente. Ogni cosa va collocata nel tempo in cui è maturata e trova sempre una sua ragione per essere così in quel momento. Io non rinnego mai niente, e soprattutto non dimentico nulla di quello che ho fatto, sarebbe come negare tanti pezzi di vita. Anzi, mi piace vedere come queste canzoni invecchiano, come ingialliscono con tenerezza, così come io penso di invecchiare con loro: le sfoglio, sono le mie fotografie, i miei ritratti”.
– Ma per il tuo pubblico queste canzoni non invecchiano affatto: quando sei sul palco sei praticamente costretto a cantare “Anna se sposa”, “Annarè” e tante altre che fanno parte, come tu dici, dell’album dei ricordi…
– “Le canto sempre con piacere e dopo tutto mi danno l’opportunità di un confronto con me stesso, tra come le interpretavo quando le ho scritte e adesso. E poi sono sicuro che per molti queste vecchie canzoni non sono affatto vecchie, nel senso che le hanno scoperte solo di recente. Perché io in questi anni mi sono reso conto che il mio successo, la mia popolarità, è frutto di un grande meccanismo di “passaparola”, di un tam tam che arriva sempre più lontano e sempre più in alto, e che parte spontaneamente dalla comunicazione tra la gente, dalla voglia di dire ad un altro “ho visto il concerto di Gigi D’Alessio, la prossima volta devi venire pure tu” e poi ad un altro, ad un altro e così via. Quindi c’è sempre gente nuova ai miei concerti, tutte persone che ti vedono per la prima volta o quasi e che vogliono approfondire la conoscenza attraverso il repertorio”.
– Sembra quasi che nella strada verso il successo tu escluda l’apporto dei grandi mezzi di comunicazione…
– “Non voglio sembrare irriguardoso nei confronti della radio e della televisione, a volte ne ho fatta persino troppa… è stata sempre molto generosa con me… radio e tv mi hanno certamente aiutato nel farmi conoscere a livello nazionale, ma continuo a credere che il percorso della mia popolarità abbia avuto un processo inverso a quello a cui assistiamo abitualmente oggi. Nel senso che ha “costretto” ad un certo punto i media ad occuparsi di me, e non il contrario, ovvero quando i media costringono milioni di giovani ad interessarsi di qualcosa o di qualcuno”.
– La domanda a questo punto te la sei servita su un piatto d’argento: come giudichi i tanti programmi televisivi dove si dà per garantita la nascita di una nuova stella della musica o dello spettacolo ?
– “Sono delle fabbriche di illusioni, ma la colpa, se di colpa si può parlare, non è degli ideatori di questi programmi. Una grande responsabilità ce l’ha, specialmente nella musica, io posso parlare solo di questo, la tecnologia. Mi spiego: oggi chiunque, a casa propria, con una tastiera e un computer, può fare musica. Mai come in questa epoca la musica è presente, è ovunque, raggiungibile, manipolabile attraverso un joystick come in un videogioco. Questo porta, anche in fretta, a dei risultati che possono sembrare subito apprezzabili, a far dire, a chi ha messo su lo “studiolo”: “càspita, ma sono bravo!”. Non voglio fare il vecchio, ma ai miei tempi che eri bravo te lo doveva dire il tuo professore di Conservatorio dopo almeno cinque anni che stavi sul pianoforte otto ore al giorno, non te lo dicevi da solo, al massimo ci speravi. A questo aggiungi poi che come è “facile” fare musica, altrettanto facile deve essere il successo, e qual è la via più breve per raggiungerlo? Apparire, “esistere” in televisione”.
– Abbiamo parlato di mezzi di comunicazione. La stampa non l’abbiamo neanche nominata.
– “Io non ce l’ho con la critica in generale, chiunque è padrone di scrivere che non gli piaccio, ci mancherebbe. Ce l’ho con quei critici che non ascoltano i dischi, che non capiscono nulla di musica e che sentenziano. Perché i gusti sono una cosa, la realtà oggettiva è un’altra: non possono scrivere che le canzoni sono scritte male o tirate via, me lo vengano a dimostrare spartito alla mano. Mi vengano a dimostrare che quell’accordo di Fa non sta bene con un Do diminuito, o che quel risvolto armonico è fuori posto. Lo dico senza vittimismi, me ne importa davvero poco, ma la verità è che io sono il bersaglio di uno snobismo diffuso e imparentato con una buona dose di invidia. Ha scritto bene una volta un giornalista: “Gigi D’Alessio ha due difetti: il primo è che è napoletano, il secondo che è bravo”.
– Un giornalista amico…
– “Certo, ho anche dei giornalisti amici!”
– E chi sono allora i nemici?
– “I falsi amici, i peggiori.”
– Il titolo dell’album “Uno come te” è un po’ il manifesto di come sei, un antidivo. Non ti viene mai la tentazione di recitare la parte del cantante di successo? Quello che ha tremila filtri, segretari, manager e portaborse vari? Ti assicuro che qui da noi è un atteggiamento molto diffuso, diciamo dalle 50.000 copie in su.
– “Essere divi per me vuol dire non avere la capacità di essere se stesso. Fare il divo vuol dire rappresentare una parte che non ti appartiene, semplicemente perché un giorno quella parte ti verrà tolta, inesorabilmente, e verrà affidata a qualcun'altro. Meglio rimanere se stessi, si evitano tante delusioni. Io rimango attaccato alla mia identità vera più che posso. Pensa, qualche giorno fa mia moglie ha risposto al telefono e ha detto “No, Gigi non c’è”. Io in famiglia per tutti sono Gino, così mi chiamano, e giuro che il primo pensiero è stato “e mo’ chi è sto Gigi?” Sarà scontato, banale, ma per me l’unica categoria che potrebbe vantare il titolo di divo è quella dei medici, dei ricercatori… chi ti salva la vita è un vero divo, e il più delle volte non lo è affatto”.
– Che rapporto hai con il denaro?
– “Faticoso, nel senso che più ne ho e più sono vittima della corsa al consumo che questa società ci impone. Oggi il denaro non dà il benessere alla gente, gli consente soltanto di rincorrere i falsi bisogni, la bella macchina, il vestito griffato, la vacanza nel posto alla moda e così via. E questo vale sia per chi può che per chi non può. Credo che mai come in questo periodo siano aumentate spaventosamente le richieste di mutui, di prestiti, di cessioni, di ipoteche… siamo tornati alle cambiali come negli anni ’60”.
– Ma tu, che non hai di questi affanni, potresti dare il buon esempio.
– “Magari. Non ci riesco nemmeno un po’. Chi ha dei figli piccoli o adolescenti come me sa che è praticamente impossibile. A scuola i compagni di mio figlio vanno tutti con la macchinina, quella che si guida senza patente. Che faccio, solo io non gliela compro? E lo zainetto, il famigerato zainetto, posso comprargli quello di una marca sconosciuta? Siamo in un imbuto, in un vicolo cieco”.
– Spesso oggi la cronaca supera anche la più terribile delle fantasie. I protagonisti delle tue canzoni invece sono semplici, animati da buoni sentimenti, amano i genitori, quando sono lasciati soffrono, promettono di cambiare per riconquistare l’amata invece di strangolarla. Esistono ancora?
– “Esistono, esistono, per fortuna. Altrimenti io non venderei un disco. Battuta a parte, io so perfettamente chi è il mio pubblico e so anche che sta crescendo di livello sociale, lo vedo nei concerti, lo incontro nei camerini dopo gli spettacoli. Tutta gente che sa cogliere la positività delle mie canzoni, persone che si sentono bene con una mia canzone. Ho conosciuto anche tanti ragazzi che erano davvero a rischio nel senso di un profondo disagio sociale, aggressivi, ribelli. La cosa più frequente che mi chiedevano era, a proposito di una certa canzone o di un’altra : “ma tu come hai fatto a sapere la mia storia? Quello ero proprio io”. E forse per la prima volta nella loro vita hanno riflettuto, hanno parlato, e quando si parla è sempre una gran cosa, è un buon antidoto alla violenza”.
– Torniamo all’album. In “Uno come te” l’uso del dialetto è molto limitato: tre canzoni su quattordici. Canti in napoletano solo in brani di grande emotività, nelle due dediche a Sophia Loren e Renato Carosone, “Donna Sofì” e “Caro Renato”, e in “Oj nenna né”, un altro momento particolarmente intenso. Come dobbiamo interpretarlo? Siamo alla quasi definitiva emancipazione “geografica” o si tratta solo di avere, quando serve, un’arma in più per sottolineare la bellezza di una melodia ?
– “Sì, è così. Penso che oggi in una canzone il napoletano si giustifichi solo per la sua classicità, per la sua forza evocativa. La lingua del pop è l’italiano e anche per me non ha più senso cantare una canzone pop in dialetto, non ne sento il bisogno”.
– Una domanda classica: la canzone più bella è quella che devi ancora scrivere?
– “E chi può dirlo? Forse è già in questo disco, chissà. L’unica cosa che mi viene da rispondere è che come musicista mi sento in crescita e penso di avere ancora molto da dire. Non so se meglio o peggio di quanto ho fatto fino a questo punto, altri giudicheranno, sperando che lo facciano in buona fede”.
– Nel panorama della musica italiana pensi di aver preso il posto di qualcuno?
– “No. Io non sono il nuovo di nessuno, anche perché se lo fossi vorrebbe dire che quel qualcuno di cui avrei preso il posto sarebbe invecchiato. Così non è, chiunque sia questo qualcuno. Non sono il nuovo di nessuno e spero di non essere mai il vecchio di un altro”.