Intervista ad Efraim Medina Reyes

Efraim Medina Reyes

Efraim Medina è nato a Cartagena de Indias, sulla costa caraibica colombiana, 33 anni fa, dice sempre 33 anni fa, da ormai non si sa quanto. Il suo romanzo "C'era una volta l'amore ma ho dovuto ammazzarlo" (Feltrinelli 2002), è diventato subito oggetto di culto in Colombia e fuori, è il testo emblematico della sua generazione in America Latina: un romanzo ispido e dilaniato, sostenuto dal ritmo del rock duro (non quello della musica dei tropici), bukowskianamente prodigo di colpi bassi d'umorismo e disperazione, ma anche di strepitosi sussulti di comicità e tenerezza. Il protagonista, Rep, diminutivo di Rettile, è uno che sbanda alla giornata tra Bogotá e la costa caraibica e si chiama fuori da tutti i miseri miti imposti e gli incubi di una situazione limite come quella colombiana, con una disordinata ed esplosiva fame di vivere. Ha il "cuore con i bordi affilati come la scheggia di un'esplosione", sprezzante ma anche affettuoso. Racconta di sé e dei suoi amici, delle loro sbornie e avventure amoroso-sessuali, delle loro liti, di quel che leggono e ascoltano, dei loro sogni e dei video amatoriali che provano a realizzare. Inframmezzata c'è una versione stupenda della della storia di due idoli della generazione di Rep: il bassista dei Sex Pistols Sid Vicious e il suicida Kurt Cobain dei Nirvana.

DANILO MANERA – Efraim Medina, perché hai cominciato a scrivere?

EFRAIM MEDINA –  Perché una volta ho preso una cotta per una tipa che amava le poesie. Allora mi sono messo a scriverne. Poi lei mi ha detto che la cosa che facevo peggio di tutte era scrivere poesie, ma ormai la dipendenza si era instaurata. No, davvero, la verità è che mio padre è morto quando ero un bambino, è stato investito da una macchina sotto i miei occhi. Ho passato molti anni in terapia e poi ho cominciato a scrivere perché mi sembrava una specie di cura. Poi invece ho scoperto che era anche peggio.

DANILO MANERA – C’è qualcosa di autobiografico nel tuo romanzo?

EFRAIM MEDINA –  No, niente, è tutto inventato, a parte la verga da 25 centimetri del protagonista.

DANILO MANERA – Va beh, a parte la verità riguardo alla verga che tanto non ci crede nessuno, c’è qualche affinità tra la Colombia del romanzo e quella in cui vivi?

EFRAIM MEDINA –  Il mio romanzo parla della Colombia che conosciamo noi colombiani. Niente a che vedere con l’immaginario europeo. In Colombia la gente si concentra nelle grandi città, mentre la guerra si svolge nelle zone rurali. A Bogotà scoppia solo qualche bomba ogni tanto, giusto per ricordarci che c’è. Io non vivo la guerra, e quindi non potrei scriverne. La realtà di Bogotà è la stessa di tutti i grandi centri urbani e poi c’è una grande disinformazione, in tutto il paese: i giovani non sanno cosa succede, quindi domina una grande paura, il senso di vuoto. La realtà colombiana non ha niente a che vedere con quella descritta nei romanzi dei nostri “pappagalli imbalsamati”, García Márquez e compagnia.

DANILO MANERA – Ma perché ce l’hai tanto con i vostri “mostri sacri”?

EFRAIM MEDINA –  Perché per noi giovani il Realismo Magico è la cenere di un sogno, è storia della letteratura, roba morta e sepolta. L’Europa deve sapere che in Colombia la gente vola in cielo per le bombe e non per gli incantesimi. La cosa più bella sarebbe alzarmi una mattina e leggere sul giornale la notizia del suicidio di Sepúlveda e di tutta la banda di idioti che sfrutta la povertà e la sofferenza del mio paese per vendere libri. Questi tizi vengono in Colombia una volta all¹anno, per andare a qualche party, ricevere qualche premio e, ovviamente, per prendere qualche appunto per il prossimo libro, e poi se ne tornano dritti filati in Europa. Ormai scrivere romanticamente di sicari, narcotraffico, guerriglie e sensualità miste significa solo sfruttare la miseria per vendersi sul mercato.

DANILO MANERA – La nota sull’autore del tuo romanzo dice che sei un newyorkese nato per sbaglio a Cartagena de Indias. Affermi addirittura che il libro spagnolo è una traduzione dell’originale inglese, niente caratterizzazione localista, dunque?

EFRAIM MEDINA –  No, ma poi, quando una mattina mi sono alzato e ho capito che Los Angeles era lontana mille miglia e che non ero bianco, allora ho pensato che avevo due opzioni: o continuavo a piangermi addosso per tutta la vita o cercavo di farci sopra dell’ironia. Quando chiedono a García Márquez chi vorrebbe essere, lui risponde che vorrebbe essere García Márquez detto tra noi, non so come diavolo faccia ad essere contento di essere com’è io, almeno, sono più onesto, e quando me lo hanno chiesto in un’intervista ho risposto che vorrei essere come Marlon Brando a 19 anni.

DANILO MANERA – Ci sono problemi, quindi, ad essere un rappresentante dell’America Latina?

EFRAIM MEDINA –  Beh, saper ballare la salsa serve per cuccare le turiste straniere nei bar. Una volta, per esempio, ne ho rimorchiata una norvegese e me la sono portata in un hotel. Poi lei mi ha chiesto come mai scopavo così male se ero latino. Ho pensato che la prossima volta avrei detto di essere ebreo.

DANILO MANERA – Ma qualche modello ce l’hai? Fino ad ora hai sparato a raffica su tutti.

EFRAIM MEDINA –  Certo: innanzitutto Juan Carlos Onetti e poi Cesare Pavese, soprattutto quello dei romanzi meno “canonici”, come I dialoghi con Leucò. Ovvio che cerco dei modelli tra la gente più fottuta di me… E poi Céline, Bukowsky e gli scrittori ‘noir’ nordamericani.

DANILO MANERA – E la droga?

EFRAIM MEDINA –  In Colombia non gira la coca, quella è la nostra fonte di reddito. Il colombiano beve, beve e basta, anche per tre giorni di seguito, io, per esempio, bevo moltissimo. E poi in Colombia si fuma la marijuana, quella ce l’hanno tutti in casa. Non sono contrario alle droghe. Una volta una giornalista bigotta ha scritto che il mio romanzo era diseducativo, che bisognava scriverci sopra “da tenere fuori dalla portata dei bambini”, come sulle medicine, perché sembra un invito a bere e a farsi. Ma secondo me bisogna provare tutto, la vita è breve, ovvio che bisogna starci attenti, a non esagerare, se si vuole continuare a fare esperienze, ma poi, mi domando, perché mai dovrebbero vietare la droga se poi le canzoni di Laura Pausini e i libri di Bruno Vespa sono legalizzati?

DANILO MANERA – Ma perché ce l’hai tanto con Bruno Vespa?

EFRAIM MEDINA –  Beh, Bruno Vespa è il massimo simbolo sessuale nel mio gruppo di amici.

Danilo Manera

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