Dal 13 gennaio in libreria "vendere la guerra" – la propaganda come arma d'inganno di massa, di Sheldon Rampton e John Stauber edito da Nuovi Mondi Media
"Una lettura essenziale per coloro che vogliono essere artefici del proprio futuro e non soggetti passivi della manipolazione e del controllo" – Noam Chomsky. Il primo libro che rivela tutti i retroscena dell'aggressiva campagna di pubbliche relazioni e disinformazione promossa dall'Amministrazione Bush per vendere al mondo la guerra all'Iraq e al terrorismo internazionale.
Con ricerche meticolose e documentate, gli esperti di media Sheldon Rampton e John Stauber analizzano le notizie, le conferenze stampa e i titoli di giornale attraverso cui il conflitto iracheno è stato pianificato con le stesse modalità di lancio di un prodotto sul mercato.
Il Pentagono ha infatti assoldato le migliori agenzie pubblicitarie e i colossi mediatici per ottenere il consenso dell'opinione pubblica, sfruttando la paura per criminalizzare il dissenso e limitare i diritti civili. Un piano di comunicazione basato su una sistematica mistificazione dei fatti, magistralmente decostruita dagli autori in questo brillante e affascinante saggio, bestseller negli Stati Uniti.
Un indispensabile manuale di difesa contro ogni tipo di propaganda.
John Stauber è il fondatore e il direttore del "Center for Media & Democracy", un istituto che analizza la propaganda condotta dalle multinazionali e dai governi. Lui e Sheldon Rampton pubblicano su "PR Watch", l'osservatorio Usa sull'industria delle pubbliche relazioni.
Postfazione a "Vendere la guerra"
Semio-guerre. La narrazione come forma attuale della guerra di Federico Montanari
La realtà, l’essenza della guerra, mai come oggi – dopo la presa di Baghdad, dopo l’11 settembre, dopo il Kosovo, i conflitti della ex-Jugoslavia e la guerra del Golfo – si nasconde dietro un apparente paradosso: essa è vera e non è vera, ci sono i morti e non ci sono, o non sono quelli che vediamo e che ci vengono raccontati; e le vittime sono reali (quando non vengono derubricate, come ai tempi delle guerre umanitarie, nei termini di danni collaterali) ma sono sempre altrove e in numero diverso da quello annunciato. Ma non basta. Non è più sufficiente dire che la guerra è manipolazione e propaganda. Non si tratta più di questo: una trasformazione si è prodotta e il libro di Sheldon Rampton e John Stauber sembra attestarlo lucidamente, con documentati riferimenti. Ma vediamo quali sono i tratti di questa strana neoguerra.
Innanzitutto, la battaglia. Le battaglie, oggi, è vero, ricominciano, di nuovo, a esserci mostrate; con tutti i caratteri, con tutti i crismi che sono loro propri sin dalla concezione leonardesca: nebbia (tempeste di sabbia), mischie se non di uomini di materie, fumo, incendi. Ma sono tanto “low-fi”, nelle riprese delle mini videocamere dei giornalisti embedded o degli stessi soldati – ogni reparto sembra che possa contare oramai sul supporto di una videocamera per ogni quattro armi da fuoco. E queste immagini di battaglie sono tanto sature nei colori e nella percezione, tanto mosse e sfocate da farci sorgere un sospetto.
Non si tratta più dell’iperreale, del più vero del vero; non più del realismo del “far-sembrar-vero”, ma del suo contrario: le battaglie non sono più vere, sono allestite e sono teatralizzate. Sono narrative.
E il fumo, lo sfocato, la nebbia, il caos sono “effetti”: effetto-notte, effetto-nebbia. Tutto è divenuto procedura efficace, buona per la costruzione scenica, filmica, drammaticamente telegenica; e dunque narrativa. é in questo senso che va interpretata anche la stessa forma discorsiva che secondo gli autori di questo libro è tipica della nuova guerra: il Double-speak e il bi-pensiero (concetti coniati a partire da Orwell in “1984” e ripresi in maniera molto interessante da Rampton e Stauber) che trovano il loro più ampio dispiegamento e impiego. Dire che qualcosa “è” equivale ad attestarne una verosimiglianza non una veridicità: meglio, si tratta sempre di vere falsità, false verità e mezze bugie.
Tuttavia è importante trattare della questione in modo da non cadere nell’ovvio: non si tratta di dire che la guerra nasconde la verità, che in guerra da sempre la verità viene manipolata e la propaganda è la principale arma. Grazie, lo sapevamo già! E gli argomenti banali sono forse i peggiori nemici dei pacifisti e di chi crede veramente in una Lotta per la pace.
Si tratta di attestare, mai come oggi, lo statuto costruttivo di tali “verità” di guerra, cioè il loro montaggio a tavolino (spesso, come sottolineano gli autori, all’interno di campagne di gestione della comunicazione e dell’informazione di lunga durata, e progettate da agenzie internazionali di relazioni pubbliche, al servizio delle diverse amministrazioni e governi, come del resto era già, a quanto pare, avvenuto per le guerre balcaniche). Non verità, ma catene di discorsi verosimili costruiti ad hoc, adeguati per certi “frames”, certi contesti informativi, per certi scenari e certe finestre temporali di eventi possibili, per certi attori e non per altri. Per quella tv e per quei giornalisti, per quel pubblico e non per quell’altro magari più informato e più critico.
Ecco lo statuto attuale dell’informazione in tempo di guerra, tanto simile alla stessa attuale pratica bellica: informazione preventiva e a “geometria variabile” (da gestire secondo le diverse situazioni e usi), ma anche alla attuale politica. Informazione preventiva buona per predisporre pubblici a storie e a fasi della guerra, a momenti topici e a finali drammatizzanti ed euforizzanti. L’hanno capito bene i manifestanti che hanno sfilato a Londra contro la “enduring war”, che continua in Iraq: ripetendo umoristicamente il gesto dell’abbattimento di una statua di cartapesta, speculare al finto abbattimento scenografico della statua di Saddam.
Tuttavia è vero, si potrebbe replicare, che sin dalla Prima Guerra Mondiale (con il regista Griffith mobilitato per realizzare film “sulle trincee”, con scenari e assalti in parte ricostruiti nella nascente Hollywood), si aprì il campo della propaganda e della disinformazione di guerra; ed è vero che da allora gli uffici di comunicazione e propaganda, poi di “Special operation services” o i servizi dei “Signal corps”, sino alle Psy-Ops, stanno al centro della pianificazione bellica.
Ma il salto – e, lo ripetiamo, sta in questo l’originalità e il cuore del problema esposto nel presente libro – viene compiuto nel momento in cui tutti i diversi strumenti, le diverse leve del marketing di guerra, vengono orchestrati, messi in forma, pianificati in una logistica strategica della comunicazione: pianificandone spazi e scenari di attuazione, tempi e attori. Ecco dunque i tre parametri semiotico-discorsivi su cui si muove la condotta delle guerre attuali. Ed ecco l’apparente paradosso.
Non più la guerra che viene comunicata, propagandata, di cui ci si convince della giustezza e opportunità: la comunicazione in tempo di guerra. Ma la guerra nel tempo della comunicazione: la guerra che si trasforma per assumere le forme testuali della comunicazione, ma all’interno delle sue stesse pratiche concrete (che non a caso, a partire dagli anni ’90 e dalla dottrina USA dell’RMA, della “Revolution in Military Affairs, si fa “soft” e “light” sullo stile dell’allora nascente new economy: leggera, mobile, tecnologicamente avanzata, tutta basata su tecnologie della comunicazione e della captazione di informazioni).
La guerra, nel suo senso più profondo, si fa soap-opera e soprattutto (lo sottolineano gli autori in un capitolo del libro) “sequel”, saga da industria dell’intrattenimento. Come Il signore degli anelli, o Star Wars, appunto. Ma in che modo le azioni si adeguano alle comunicazioni? Questo sembra avvenire al di là della preponderanza dei mezzi dal lato “info” e da quello logistico-organizzativo-tecnologico della macchina bellica.
La guerra (lo attestano esperti strategico-militari di valore internazionale come Alain Joxe o Emmanuel Todd) diviene gesticolazione militarista e retorica dei “colpi” a effetto: dei momenti e delle attese (sempre in tv davanti al teleschermo, naturalmente). In questo la guerra del Kosovo è stato prototipo. Come sottolineava l’inviato Rai Ennio Remondino a Belgrado, il missile arriva perché sia visto in televisione; le armi sono segni di distruzione (oltre che produrre distruzione concreta). Una sorta di minaccia e di dissuasione in tempo reale. Armi di inganno di massa, certo, ma, ci permettiamo di aggiungere, anche armi-segno di narrazione di massa.
Perché una guerra, oggi, la vince chi – come sostenevano gli inventori dei concetti di “cyberwar” e di “infowar”, Ronsfeld e Arquilla – la sa raccontare bene.
E i morti? E le case distrutte? E i villaggi incendiati? Le imboscate? E i corpi fatti a pezzi? E la famosa “realtà”? La realtà è sempre una testimonianza: nostra se siamo sul posto, più spesso di altri. La Testimonianza è fatta di sequenze di fatti raccontati, messi in narrazione. Volenti o nolenti, da che mondo è mondo, il narrare è la messa in forma della realtà.
Oggi – e forse non solo oggi, come giustamente sottolineano Rampton e Stauber, ricordando il famoso stratagemma di Alessandro, consistente nel disseminare il terreno di gigantesche corazze per far credere che a combattere fossero dei giganti – i militari se ne sono accorti. La novità forse, ai nostri giorni, sta nella permanenza di questa guerra; nel suo statuto autoreferenziale e autoproduttivo: nella guerra che alimenta sempre altra guerra. Si tratta sempre di un episodio che, presentato, ancora una volta, come “la guerra che mette fine a tutte le guerre”, autoalimenta altre narrazioni belliche. Un altro racconto di guerra… continua…