Marcela Serrano

Marcela Serrano

Nata a Santiago del Cile nel 1951, Marcela Serrano si è diplomata in incisione e ha lavorato in diversi settori di arti visive a Roma e nel suo paese. Con Feltrinelli ha pubblicato Noi che ci vogliamo così bene (1996), con cui ha vinto il premio della casa editrice francese Coté des Femmes per il miglior romanzo ispanoamericano scritto da una donna, Il tempo di Blanca (1998), L’albergo delle donne tristi (1999) e Antigua, vita mia (2000).

Tratto dal libro: "Be’, sì, credo che mi abbiano scelto perché sono una donna. E perché il Messico ha ormai un posto ben definito nella mia coscienza. Ma non vuol dire che mi senta a mio agio con questo caso fra le mani. No, non è vero: non solo mi sento a mio agio, ma perfino importante; ammetto che, quando Il Capo ci ha fatti chiamare e ha detto di fronte a tutti che ero stata designata io, non ho potuto nascondere una vampata di orgoglio. Quindi non è che mi senta a disagio, è che la situazione mi rende nervosa, come se tutta questa faccenda mi andasse un po’ grande.

"E come farai?" mi hanno chiesto i colleghi all’uscita della riunione, un po’ invidiosi e un po’ spaventati. Ho guardato i fascicoli che reggevo fra le braccia, strapieni come gli incartamenti di un burocrate, e sono riuscita soltanto a tirare un profondo sospiro.
Tenendomeli stretti come un gioiello prezioso, ho preso un taxi in fondo a calle Catedral. Mi sono concessa questo lusso, convinta che un caso nuovo meriti sempre di essere festeggiato e, senza alcun rimorso, ho rimandato le commissioni che avrei fatto se avessi preso l’autobus; insomma, non sarebbe morto nessuno se non fossi andata in tintoria o al supermercato. Contemplavo l’orribile traffico di Santiago del Cile, sentendomi del tutto estranea: mi escludevo con disinvoltura da quelle correnti incomprensibili che vanno su e giù senza mai fermarsi in mezzo ai suoi abitanti, vittime degli andirivieni di un carosello infernale. Era un pomeriggio di gennaio e la calura era simile a un mormorio. Vibrante e permanente. Eppure nulla mi turbava. Ero appena ritornata dalle vacanze, sazia di riposo, di mare, di ore di sonno, di sale sulla pelle e di notti di lettura. Sazia è un modo di dire, in realtà non riesco mai a saziarmi di vacanze; intendo dire semplicemente che mi sentivo un concentrato di energie, fermamente decisa a resistere all’invadenza della città con la sua fretta e la sua rabbia. E nemmeno al caldo avrei consentito di insultarmi.
Come al solito, la cabina dell’ascensore era guasta e decisi di avviarmi su per il buco nero delle scale. Quattro piani. Mi rassegnai pensando che un po’ di esercizio non mi avrebbe fatto male.

Entrando in casa, scaraventai i fascicoli sulla poltrona e gridai dalla cucina, come fanno i miei figli: "Sono arrivata!".
Mi accinsi a preparare il caffè. Meglio un thermos intero, pensai mentre versavo l’acqua, la faccenda andrà per le lunghe. Portai vassoio e documenti in camera da letto, con l’intenzione di chiudermi dentro, e così facendo mi rammaricai per l’ennesima volta che l’appartamento avesse soltanto tre camere: o uno studio per me o i due ragazzi nella stessa stanza; la decisione era venuta da sé e con il bel risultato che da anni lavoro sul letto.

"Mamma! Che cosa fai a casa a quest’ora?"
Mio figlio Roberto spuntò dal corridoio, ogni giorno più alto e dinoccolato, con l’aria addormentata e la camicia fuori dai calzoni.
"Ho parecchio lavoro da sbrigare e in ufficio c’è troppo rumore," ho risposto dandogli un bacio. "Lavati la faccia, tesoro, continua a studiare e rispondi tu al telefono. Non ci sono per nessuno."
"Ti hanno assegnato un caso nuovo, si vede… È divertente almeno?"
Stavolta sono stata io a non rispondergli, come fa lui di solito quando ha qualcosa per le mani. Chiusi la porta della camera e, una volta sistemata fra i cuscini del letto, aprii il dossier molto ansiosa e febbrile, disposta a leggerlo più volte, a impararlo a memoria se fosse stato necessario; come se si potesse cogliere l’esistenza di un essere umano consultando pagine su pagine, per quanto ricche di dettagli di tutta una vita. Il dossier s’intitolava, com’era ovvio: C.L. Ávila.

C.L. Ávila.
Presi la sua fotografia.
Che donna misteriosa.
Affermare che sia giovane potrebbe creare equivoci: io, con l’età che mi ritrovo, potrei considerarla tale, ma se faccio i conti ha quarantatré anni e i miei figli direbbero che non sono pochi. Allora diciamo che è una donna di mezza età con tracce di giovinezza nell’espressione, capelli e occhi castani e un’aria distratta eppure decisa. Sebbene il suo sguardo si concentri su di un unico livello, la decisione brilla inequivocabilmente nei suoi occhi.

È sorprendente notare come la determinazione che si legge nei suoi occhi, propria di una persona adulta, possa convivere con un’energia giovanile. È un volto limpido, eppure affaticato. Inaccessibile, forse. Gli zigomi sono sporgenti, vigorosi sotto la carnagione chiara, quasi opaca. I miei figli possono dire quello che vogliono, ma ha il collo di una persona giovane: è il punto dove nessun artificio ha effetto, in cui si annullano le maschere e si rivelano le finzioni.

Le labbra – piuttosto sottili – sono distese. Non accennano a un sorriso, e vengono sottolineate agli angoli da due linee cesellate che scendono dal naso, a tradire le risate, le tante risate che l’hanno travolta nel corso degli anni. I capelli, castani come ho già detto, folti e ricci, le ricadono sulle spalle in onde naturali un po’ disordinate. Non porta orecchini né anelli. Indossa qualcosa di nero e di aderente, osservo la scollatura rotonda, ma non riesco a capire se si tratti di un vestito, di una camicia o di una semplice maglietta, perché la fotografia è a mezzo busto. Per chissà quale capriccio, l’obiettivo le ha tagliato la figura a metà. Lo sfondo rettangolare di un verde sfumato fa pensare a un luogo all’aperto, ad arbusti o a una vegetazione esuberante. Sta seduta sopra una poltroncina bianca. Osservando meglio, riesco a distinguere la lavorazione in ferro battuto tipica delle panchine dei giardini borghesi. Il gomito si posa delicatamente sul bracciolo, come in abbandono, o piuttosto rassegnato, mentre il mento appoggiato sulla mano le conferisce un’aria distante, sperduta, immersa in un mondo tutto suo, inaccessibile ai comuni mortali che non vengono invitati a farne parte. Immagino che l’altra mano sia posata sulla gonna perché, come ho già detto, il taglio della fotografia non mi consente di affermarlo con certezza.

Dà l’impressione di essere un po’ annoiata, mentre guarda l’obiettivo. Non si nota alcun segno che riveli il desiderio di piacere. Neppure un indizio. Come se non stesse lì. E nella sua espressione non si legge nulla, né il bene né il male.
Sul lato destro della carta lucida, quasi sul bordo, qualcuno ha scritto con l’inchiostro blu: ottobre 1997. Suppongo sia l’ultima fotografia che le hanno scattato.

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